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Radio Bullets, #donnenelmondo del 12 dicembre 2015

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Maggiori sforzi per organizzare e finanziare i gruppi locali: è quello che serve, secondo ActionAid, in tema di lotta alla violenza di genere. Lo riporta il Guardian. Onyinyechi Okechukwu, communication specialist per ActionAid Nigeria, già fortemente coinvolta nella campagna Bring Back Our Girls per salvare le giovani studentesse cristiane rapite dai fondamentalisti di Boko Haram in Nigeria, spiega che solo un movimento femminile locale riuscirebbe a portare cambiamenti duraturi nel Paese. Quello della mancanza di fondi è un tema ricorrente e controverso per i gruppi locali per i diritti delle donne. L’anno scorso, scrive il Guardian, gli appelli all’aumento dei fondi per le organizzazioni stavano per essere resi vani nell’ambito del nuovo documento della Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne: gli attivisti hanno dovuto lavorare sodo per mantenere il testo originario. I numeri pubblicati dalla Association for Women’s Rights in Development nel report 2013 – lavoro che porta l’evocativo titolo “Annaffiare le foglie, affamare le radici” – rilevano che le entrate medie per le 740 organizzazioni femminili analizzate ammontavano a 20,000 dollari — 13,000 – sterline – all’anno. Per i gruppi dell’Africa sub-Sahariana la media scende a poco più di 12,000 dollari l’anno. Agli inizi di quest’anno, ActionAid e la Women Human Rights Defenders International Coalition hanno accusato i governi di tagliare i fondi alle realtà che si occupano di donne e comunque di ostacolare il loro lavoro. Nell’ambito della Fearless campaign, ActionAid ha lanciato il suo appello per maggiori fondi da destinare ai gruppi locali, il cui ruolo nel combattere la violenza di genere è cruciale. L’organizzazione si rivolge anche al governo inglese che ha promesso di mettere donne e ragazze al centro dei suoi programmi di aiuto e delle sue politiche di sviluppo, affinché assuma un ruolo di leadership nell’opera di incoraggiamento per gli altri Paesi a portare avanti azioni pratiche per prevenire la violenza sulle donne. Dei 19 miliardi di sterline accantonati per perseguire a livello globale le disuguaglianze di genere tra il 2012 e il 2013, alle organizzazioni è andato meno di 270milioni. Gli appelli ai fondi diventeranno sempre più forti ora che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a porre fine alla violenza contro donne e ragazze entro il 2030 nell’ambito dei sustainable development goals che entreranno in vigore il 1 gennaio 2016. “Molti governi e donor vogliono solo vedere risultati immediati rispetto all’impiego di fondi “, dice Okechukwu. “Per questo finanziano edifici scolastici o altri tipi di costruzione o centri salute. Ma quello che facciamo per i diritti delle donne ha a che fare con l’advocacy e con questioni legislative – e sono cose che richiedono tempo”. I governi “non possono dire che vogliono combattere la violenza di genere e poi cercare rapide vittorie”.

L’Algeria ha approvato una legge che criminalizza la violenza contro le donne. La legge, che modifica e completa il codice penale, introduce la nozione di molestia sessuale e punisce tutte le forme di aggressione, di violenza verbale, psicologica o maltrattamenti, in particolare per i casi recidivi. Si sottolinea così che la violenza può assumere diverse forme e che le aggressioni non lasciano necessariamente segni visibili. Questa nuova legislazione vuole in particolare difendere le donne dalle violenze dei congiunti e preservarne le risorse finanziarie dalle mire di coloro che sono ancora percepiti dalle società tradizionali come i capi-famiglia. Il testo dispone che chiunque usi violenza verso una persona congiunta rischia, a seconda della gravità, da uno a 20 anni di carcere, e l’ergastolo in caso di morte. Un altro articolo prevede dai sei mesi ai due anni di prigione per “chiunque eserciti costrizioni sulla propria coniuge per disporre dei suoi beni o delle sue risorse finanziarie”. Questo testo era stato adottato a marzo dall’Assemblea nazionale ma il suo blocco al Senato da parte dei conservatori aveva sollevato inquietudini nelle organizzazioni per i diritti umani, soprattutto a ottobre in seguito alla morte di una donna di 40 anni investita da una macchina dopo aver rifiutato delle avances. Dopo la sua adozione, i conservatori avevano definito questa legge un’intrusione nell’intimità della coppia, contraria ai valori dell’islam. I rappresentanti della società civile e delle ONG avevano dal canto loro criticato il fatto che il testo preveda lo stop dell’iter giudiziario in caso di “perdono” da parte della vittima. Secondo le cifre ufficiali, nei primi nove mesi del 2015 sono stati registrati nel Paese 7.375 casi di violenza. L’Algeria diventa ora il decimo Paese del Maghreb – dopo la Tunisia – a criminalizzare la violenza contro le donne. Un progetto di legge su questo tema è allo studio in Marocco ma è oggetto di grande dibattito.

Cincinnati è la seconda città negli Stati Uniti dopo Washington DC a bannare le terapie per la “conversione” dei gay minorenni. Un risultato ottenuto a un anno dalla morte di Leelah Alcorn, una trans sottoposta dai suoi genitori al “trattamento” e morta suicida il 28 dicembre scorso a 17 anni in Ohio. La pratica è proibita anche in California, Illinois, New Jersey e Oregon.

“Sono caduto e l’ho penetrata per sbaglio”. È la difesa dall’accusa di stupro di Ehsan Abdulaziz, proprietario immobiliare di 46 anni. Nell’agosto del 2014 era uscito per una serata e aveva incontrato una giovane donna e una sua amica di vecchia data in un nightclub londinese. Dopo aver bevuto numerosi cocktail, si legge sull’Huffington Post, si era offerto di accompagnare con la propria Aston Martin le due ragazze nel suo appartamento. Qui, secondo Abdulaziz, l’amica era andata a dormire in una camera mentre la diciottenne l’aveva seguito nella sua camera da letto. Da questo momento in poi, però, le versioni divergono notevolmente. La vittima sostiene di essersi svegliata nel cuore della notte mentre l’uomo tentava di penetrarla contro la sua volontà. A quel punto si è alzata sconvolta, ha svegliato l’amica e ha chiamato la polizia. Abdulaziz, invece, ha cambiato spesso la narrazione dei fatti di quella notte: nel primo interrogatorio ha sostenuto che la ragazza lo aveva attirato a sé permettendogli di mettere le mani tra le sue gambe. Ma quando dalle analisi di laboratorio era emerso che nel corpo della diciottenne c’era traccia del suo sperma, il milionario è stato nuovamente interrogato. E qui è spuntato il racconto della caduta accidentale: “La ragazza ha portato le mie mani sulla sua vagina. Così sono caduto sopra di lei e il pene è entrato”.

Pretoria. La rappresentante delle Nazioni Unite Dubravka Simonovic in visita in Sud Africa per analizzare la situazione della violenza contro donne e bambini, rivela che, secondo i dati da lei raccolti al momento, sta crescendo la mancanza di sensibilità nei confronti dei crimini perpetrati contro queste categorie vulnerabili. Lo riporta Eyewitness News. Di questi giorni la notizia dell’uccisione di due ragazze adolescenti e di un neonato a Katlehong. Simonovic spiega che la violenza contro le donne rappresenta un fenomeno socialmente accettato in Sud Africa e che la violenza ereditata dall’apartheid risuona ancora nella società di oggi. “Il Sudafrica è ancora una democrazia giovane e le cicatrici sono ben vive nel suo tessuto sociale”.

Uganda. L’HIV peggiora la violenza contro le donne, e la trasmissione del virus ne è causa e conseguenza. Studi indicano che la vulnerabilità all’HIV tra le donne che hanno subito violenza sessuale può essere fino a tre volte superiore rispetto a chi non l’ha subita. Secondo Joyce Tibayijuka, dalla Comunità Nazionale delle donne che vivono con l’HIV/AIDS in Uganda, le donne devono affrontare la violenza sessuale soprattutto quando il loro partner è sieropositivo e loro non lo sono. Diventano spesso vittima di violenza da parte dei partner sieropositivi, quindi. Kihumuro Apuuli, direttore generale della Commissione AIDS in Uganda, spiega che l’uso del preservativo nelle coppie HIV-discordanti (quelle dove solo uno dei due partner è malato e l’altro no) è molto basso. Che spesso gli uomini non vogliono usare il profilattico e che questo diventa spesso il prologo di una violenza sessuale. La violenza del partner può aumentare il rischio di infezione da HIV di circa il 50 per cento. Vi è anche prova che la violenza mina l’accesso alle cure, all’assistenza e ai servizi di sostegno per le donne che vivono con l’HIV. In Uganda, il 60 per cento delle nuove infezioni da HIV si verificano in rapporti tra coppie HIV-discordanti.

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Radio Bullets, #donnenelmondo del 3 dicembre 2015

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Un’attrice marocchina mostra il volto tumefatto su Al Arabiya. FGM bandite in Gambia. Violenza contro le donne in Turchia, aumentano i casi e l’intensità. Gli Stati Uniti e il “terrorismo antiabortista”.

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Marisa Maghreb è un’attrice marocchina. Qualche giorno fa ha fatto la sua comparsa in uno show del mattino di Al Arabiya indossando degli occhiali da sole. Quando li ha tolti, si legge su Haaretz, ha mostrato un occhio nero, prova della violenza subita. Maghreb sta conducendo una campagna per le donne dallo slogan “Non nascondere la violenza verso di te”. Le foto del suo volto tumefatto sono apparse sui suoi profili Instagram e Twitter, insieme a quelle di molte altre donne arabe che hanno deciso di mostrare il volto della violenza maschile nei loro confronti e di uomini che appoggiano la campagna. “Quello che è importante per le donne è rompere il muro del silenzio”, spiega l’attrice nell’intervista in tv. “ Dobbiamo far crescere la consapevolezza nei confronti della violenza sulle donne, e noi non dobbiamo nasconderla”. “Non l’hanno accusata del fatto che il suo appello a mostrare la violenza domestica porterà alla rovina delle famiglie?”, le chiede il presentatore. “Non faccio appello alla distruzione delle famiglie”, ha replicato lei, “e non tutta la violenza deve finire con un divorzio. Ci sono modi per trattare la violenza, e non cominciano necessariamente in tribunale”. Maghrabi ha evitato di rispondere ad una domanda diretta sulla violenza su di lei da parte dell’ex marito, l’uomo d’affari Ahmed Badi, cittadino degli Emirati Arabi. Ha detto che non ha subito solo violenza psicologica ma anche fisica. Anche il femminile online Anazahra di Dubai si è unito alla campagna, si legge ancora su Haaretz. Nell’ultimo numero del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il magazine ha pubblicato una serie di articoli sulla violenza di genere e su come prevenirla.

Mutilazioni genitali femminili. In Gambia il Comitato sulle pratiche tradizionali che incidono sulla salute delle donne e dei bambini nel Paese ha celebrato la Giornata internazionale per porre fine alla violenza contro le donne con una cerimonia nella Central River Region. L’evento, si legge su AllAfrica.com, ha anche visto la dichiarazione pubblica dell’abbandono della pratica del taglio nei distretti Niamina e Fulladu. Yahya Jammeh, presidente del Gambia, ha annunciato alcuni giorni fa che il Paese bandisce le mutilazioni genitali femminili con effetto immediato. Lo ha riportato il Guardian, promotore dallo scorso anno insieme all’attivista Jaha Dukureh di una campagna internazionale per la messa al bando delle MGF che proprio un paio di settimane fa aveva toccato lo stesso Gambia. Secondo il quotidiano britannico nel Paese la mutilazione genitale femminile viene tuttora imposta al 76% delle donne e che il 56% delle bambine con meno di 14 anni l’ha subita.

Il Kosovo entra a far parte della campagna per fermare la violenza sulle donne con una serie di eventi nell’ambito della campagna internazionale di 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, fino al 10 dicembre. Ne parla Balkan Insight. “Ogni anno dobbiamo alzare la nostra voce e incoraggiare le persone a combattere questo fenomeno non solo durante i 16 giorni, ma per tutto l’anno”, dice a BIRN Alessandra Roccasalvo, il rappresentante del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite in Kosovo. I problemi del Paese in termini di violenza contro le donne e di fallimento delle risposte “sono stati evidenziati ancora una volta nel mese di ottobre di quest’anno, quando Zejnepe Bytyqi Berisha di Suhareka è stata uccisa dal marito Nebi Berisha, dopo essere stata oggetto delle sue violenze fisiche e psicologiche per 16 anni. L’ha uccisa con 10 coltellate sotto agli occhi dei quattro figli. Zejnepe aveva più volte denunciato la violenza del marito alla polizia kossovara. Fin dal 2002. Ma lui non è mai stato arrestato. “Questo caso racconta il fallimento del sistema, che dovrebbe aiutare e proteggere le vittime”, dice il capo della missione OSCE in Kosovo, Jean-Claude Schlumberger. Da un sondaggio dell’Istituto di statistica del Kosovo e dell’Unicef condotto nel 2013-14 emerge che oltre il 42 per cento delle donne intervistate ha affermato di meritare la punizione fisica di un componente maschile della famiglia quando si macchia di certi “errori”. Quali? Rendere il marito geloso, rifiutarsi di fare sesso, bruciare il cibo, non rispettare i doveri familiari e non prestare attenzione ai figli.

La violenza contro le donne in Turchia aumenta sia in numero che in brutalità. “Ciò che noi chiamiamo femminicidio è in realtà un omicidio di donne che si rivoltano contro gli abusi e lottano per l’indipendenza”, dicono dalla piattaforma Will Stop Femicides. Ma gli uomini, si legge su Hurriyet – ovvero partner, ex, componenti della famiglia – rispondono a questa ritrovata indipendenza con ancora più violenza, mentre i meccanismi di protezione non riescono a proteggere le vittime. E si parla, secondo i soggetti in prima linea, non solo di un aumento delle donne sottoposte a violenza nell’arco degli ultimi dieci anni, ma anche di un aumento dell’intensità di quella violenza, ai limiti della tortura. Murice Kadan, avvocata che si occupa di questi temi, racconta: “Una donna venuta da noi per chiedere protezione legale lo scorso anno era stato accoltellato 42 volte dal marito”. “Queste donne non vengono solo uccise ma mutilate e sottoposte a violenza prima e dopo l’assassinio. Una violenze che confina con la tortura. Le cosiddette notizie di terza notizie pagina sui femminicidi comprendono decapitazioni, tentativi di bruciare il corpo o tagliarlo a pezzi”.

Stati Uniti. Dal 1993, 11 persone sono state uccise in attacchi legati alla questione aborto – medici, personale delle cliniche, e la settimana scorsa, un agente di polizia e due visitatori entrati sulla linea di fuoco in una clinica di pianificazione familiare a Colorado Springs. David Cohen, professore di diritto presso la Drexel University, dice che lo stalking e le molestie costituiscono una minaccia molto comune per chi pratica l’aborto e per le loro famiglie. Nel libro “Vivere nel mirino: Le storie mai raccontate del terrorismo anti-abortista”, Cohen e la co-autrice Kristen Connon hanno intervistato 87 operatori in 34 Stati – proprietari di cliniche, medici e altri dipendenti. ProPublica ha intervistato Cohen sulle loro scoperte. Ecco alcuni stralci dell’intervista. Ci sono i picchetti. “Si tratta di una forma particolarmente invadente di molestia, perché la casa è dove ci rifugiamo per sfuggire dal mondo e dalla vita pubblica. Gli estremisti vanno a casa nei fine settimana con cartelli tipo “Qui vive un assassino”, urlando ai vicini di fare qualcosa per quella terribile persona in mezzo a loro”. Il messaggio, secondo Cohen, non è per niente sottile: “Sappiamo dove vivi, sappiamo dove trovare la tua famiglia, e forse faremo qualcosa di più”. Insieme ai picchetti ci sono lettere minatorie a casa e al lavoro, ma anche il puntare i familiari presentandosi per esempio a scuola”. Tutto questo insomma “ha un profondo impatto sulla loro vita. Per alcuni è così costante e così pervasivo che lo percepiscono come normale. Un medico ci ha raccontato che si sentiva come un soldato sul campo, un poliziotto di quartiere, un vigile del fuoco che sta per entrare in un edificio in fiamme. Molti di loro si sentono come bersagli, sono in pericolo, devono essere vigili per tutto il tempo. Sono traumatizzati. Peccato che non siano soldati in battaglia ma personale medico che lavora in ufficio”. La clinica di Colorado Springs, chiede Nina Martin per ProPublica, in cui si è verificata la sparatoria della scorsa settimana aveva telecamere ovunque, vetro antiproiettile e una cassetta di sicurezza. Che tipo di precauzioni vengono prese per proteggersi da violenze e molestie? “Alcuni non fanno nulla, spiega David Cohen. Altri mettono un altro nome presso la propria abitazione o sulla cassetta delle lettere. Si travestono, prendono ogni giorno strade diverse per andare a lavoro, fanno accordi con le compagnie aeree per cambiare volo all’ultimo, in modo che i manifestanti non conoscano i loro programmi. C’è chi porta delle armi addosso. “Uno dei medici di cui abbiamo parlato ha detto: “Se qualcuno, quando sono andato a studiare medicina, mi avesse detto che sarei finito per andare al lavoro armato e con giubbotto anti-proiettile, lo avrei preso per pazzo. Ma ho un giubbotto antiproiettile e in questi giorni vado in clinica armato”.

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Radio Bullets, #donnenelmondo dell’19 agosto 2015

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L’Isis usa la violenza sulle donne come strumento di potere, per tenere il territorio e per finanziare le proprie attività. Le donne, si legge su Public Radio International, vengono acquistate, messe all’asta e promesse alle nuove reclute. In alcuni rari casi alcune di loro riescono ad essere salvate da avvocati e attivisti, ma in generale questo sistema di schiavitù sessuale è una realtà raccapricciante per migliaia di giovani donne. Usare stupri e violenze sessuali in “ guerra” non è certo una novità, e l’ISIS ha implementato un sistema radicato di schiavitù sessuale che coinvolge le donne della minoranza religiosa yazidi. Molte di loro sono state catturate mentre tentavano di fuggire dalle montagne del Sinjar lo scorso agosto, caricate su un bus e spedite nei pressi di Mosul e in altre aree all’interno dell’Iraq. Qui molte di loro hanno sentito per la prima volta la parola “Sabaya”. “Un momento che tutte descrivono come agghiacciante”, racconta Rukmini Callimachi, la corrispondente del New York Times che ha intervistato 21 donne e ragazze fuggite ai terroristi dell’Isis. È il momento in cui capiscono che Sabaya vuol dire schiava. I leader delle comunità stimano che più di 3.000 persone siano ancora prigioniere dell’Isis. Rumini spiega sul NYTimes che l’Isis ha essenzialmente creato una burocrazia della schiavitù. “Le donne catturate vengono acquistate e vendute dai combattenti. Al momento dell’acquisto, c’è un contratto, e il contratto è nei fatti certificato, notariato da un tribunale di Stato islamico “. L’articolo è in questi giorni tra i più letti sul sito del New York Times.

Umoja – Umoja significa “unità” in Swahili – è un villaggio in Kenya dove possono vivere solo le donne. Gli uomini, semplicemente, non sono ammessi. Julie Bindel, scrittrice britannica, femminista e cofondatrice del gruppo Justice for Women, lo ha visitato e raccontato sulla testata per cui collabora, il Guardian. Jane racconta di essere stata violentata da tre uomini che indossavano uniformi Gurkha. Stava radunando le capre e le pecore del marito, scrive Julie, e che trasportano legna da ardere, quando è stata attaccata. “Provavo una tale vergogna e non sono riuscita a parlarne con altre persone. Hanno fatto cose terribili con me”, racconta Jane con gli occhi vivi di dolore. Ha 38 anni ma sembra molto, molto più vecchia. “Mi mostra una profonda cicatrice sulla gamba: si è tagliata con le pietre quando è stata spinta a terra”, racconta la scrittrice. “Alla fine ho detto alla madre di mio marito che ero malata, perché ho dovuto spiegare le lesioni e la mia depressione. Mi hanno curato con la medicina tradizionale, ma non è servito a nulla. Quando ho detto a mio marito [dello stupro], racconta ancora Jane a Julie Bindel, mi ha picchiata con un bastone. Così sono scappata e sono venuta qui con i miei figli”. “Qui” è proprio Umoja, un villaggio nelle praterie di Samburu, nel nord del Kenya, circondato da un recinto di spine. Qui vagano capre e polli, le donne producono gioielli da vendere ai turisti, i vestiti, scrive la Bindel, si asciugano stesi al sole di mezzogiorno in cima alle capanne di sterco di vacca, bambù e ramoscelli. Il paesaggio è quello tipico. Ma qui succede qualcosa di straordinario: gli uomini, qui, non possono vivere. Il villaggio è stato fondato nel 1990 da 15 donne vittime di stupri da parte dei soldati britannici locali. La popolazione di Umoja è cresciuta nel tempo e include tutte le donne in fuga per matrimonio precoce, mutilazioni genitali femminili, violenza domestica e stupro: tutte norme culturali tra i Samburu. La fondatrice è Rebecca Lolosoli: una donna alta, dalla testa rasata, veste i tradizionali ornamenti Samburu e ha ricevuto nel tempo molte minacce per quello che fa. È lei la matriarca del villaggio. L’idea le è venuta mentre era in ospedale per il pestaggio subito da un gruppo di uomini che voleva darle una lezione per aver osato parlare con le donne del suo villaggio dei loro diritti. I Samburu sono strettamente correlati alla tribù Masai, che parla un linguaggio simile. Di solito vivono in gruppi da cinque a 10 famiglie e sono pastori semi-nomadi. La loro cultura è profondamente patriarcale. Le prime abitanti di Umoja provenivano dai villaggi Samburu sparsi in tutta la valle del Rift. Da allora, le donne e le ragazze che vengono a sapere del villaggio-rifugio, scrive Julie Bindel sul Guardian, vengono qui e imparano il commercio, a crescere i loro figli e a vivere senza la paura della violenza degli uomini e delle discriminazioni. Oggi sono 47 le donne e 200 i bambini che vivono a Umoja. Queste donne e ragazze, racconta Julie Bindel, vivono in maniera frugale ma riescono a guadagnare un reddito regolare che permette loro di avere cibo, vestiti e riparo per tutti. I leader gestiscono un campo a poca distanza dal fiume, meta per i turisti che vengono qui a fare safari. Molti di loro visitano anche Umoja: le donne fanno pagare una modesta “tassa di ingresso” e sperano che i visitatori acquistino i gioielli artigianali da loro realizzati.

SheSays è un’iniziativa che intende creare un clima di tolleranza zero nei confronti della violenza sulle donne in India attraverso progetti culturali e normativi, attraverso una rete di supporto che riconosca tutti i livelli di abuso sessuale e fornisca i mezzi necessari a combatterli. Ne parla DailyNewsIndia. “Tendo a cercare su Google di tutto”, spiega Trisha Shetty, fondatrice di SheSays. “Ma quando cerco on line informazioni su cosa fare in caso di un qualsiasi tipo di abuso, su come affrontarlo eccetera, trovo solo notizie di casi di stupro in India o link a ONG e loro contatti. Per le vittime di abusi è difficile persino trovare aiuto telefonico: la mancanza di informazione è totale e forse l’idea che il processo per presentare denuncia sia così arduo funziona come un grande deterrente per le persone che spesso rinunciano ad affrontare la questione”, racconta Trisha. Ecco perché è nato il portale, “il primo sito web del suo genere che fornisce tutte le informazioni rilevanti in un unico posto”. Si trovano informazioni su come individuare gli atti di abuso sessuale riconosciuti dalla legge e presentati in maniera semplice. Si trovano le misure da prendere passo dopo passo quando si va in un ospedale, in una stazione di polizia, quando viene assegnato un avvocato, sui procedimenti giudiziari e su come affrontare le molestie sessuali sul posto di lavoro. L’informazione è accessibile anche in Hindi, Marathi e tedesco”. Il portale è stato lanciato all’inizio di agosto e nella sua fase successiva prevede la mappatura delle stazioni di polizia, degli ospedali e degli psicologi, nonché di tutti i posti dove le vittime possono trovare aiuto immediato”.

Il presidente Obama ha nominato Raffi Freedman-Gurspan Outreach and Recruitment Director della Casa Bianca. Raffi è stata advisor per il National Center for Transgender Equality e ha iniziato il suo nuovo lavoro proprio in questi giorni. Freedman-Gurspan è la prima persona dichiaratamente transgender a lavorare a Pennsylvania Avenue. “Il presidente Obama ha da tempo detto che vuole la sua amministrazione assomigli al popolo americano”, spiega a The Advocate.com Mara Keisling, direttore esecutivo di NCTE. “Che il primo incarico a una persona transgender venga assegnato a una donna transgender di colore è particolarmente significativo”.

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Radio Bullets, #donnenelmondo del 9 aprile 2015

APphoto_Nigeria Kidnapped Girls

Salve a tutti e benvenute e benvenuti anche questa settimana a #donnenelmondo su RadioBullets.

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Cominciamo subito con la denuncia di Amnesty International che, in un rapporto diffuso in questi giorni, accusa il governo afgano di aver abbandonato le donne che difendono i diritti umani, nonostante gli importanti risultati che cercano di raggiungere a fronte di una crescente violenza, fatta di minacce, aggressioni sessuali e omicidi. Dal report, intitolato “Le loro vite in gioco”, emerge come importanti sostenitrici dei diritti delle bambine e delle donne (dottoresse, insegnanti, avvocate, poliziotte e giornaliste) siano state prese di mira non solo dai talebani ma anche dai signori della Guerra, spiega Amnesty, e da rappresentanti del governo. Le leggi che dovrebbero proteggerle sono mal applicate o non lo sono affatto, mentre la comunità internazionale sta facendo troppo poco. Tanti sono i casi, presenti nel rapporto, di donne che, per aver difeso i diritti umani, hanno subito attacchi mentre erano alla guida delle loro automobili o si trovavano in casa e sono state vittime di omicidi mirati. Molte, nonostante i continui attacchi, continuano a portare avanti il loro lavoro, nella piena consapevolezza che non sarà fatto nulla contro i responsabili degli attacchi. “È vergognoso che le autorità afgane le abbiano abbandonate a loro stesse, in una situazione come quella attuale, più pericolosa che mai”, spiega da Kabul Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.

E passiamo alla Nigeria. Sequestrate, obbligate a convertirsi all’Islam, costrette al matrimonio e poi sgozzate. Sarebbe questo, scrive l’Ansa, il tragico epilogo per le circa 200 liceali nigeriane rapite nell’aprile dello scorso anno dai miliziani Boko Haram nel nord della Nigeria. In un’intervista pubblicata dal quotidiano nigeriano This Day, il direttore dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Raad Zeid al Hussein, ha affermato che le ragazze “potrebbero essere state tutte uccise”. Dicendosi dapprima “molto pessimista” sulla sorte delle giovani rapite, al Hussein ha aggiunto oggi che le liceali potrebbero infatti essere state passate per le armi a Bama. La città è stata controllata per mesi dai Boko Haram. Poi sotto la spinta dell’offensiva dei militari nigeriani l’hanno abbandonata e sarebbe stato questo il momento del massacro. Una volta entrati in città i soldati hanno trovato i cadaveri di un numero altissimo di donne. Sempre secondo Raad Zeid al Hussein, in passato le liceali erano state costrette a sposare i loro sequestratori. Alcuni rapporti delle Nazioni Unite confermerebbero che molte giovani donne sono state massacrate nelle città dello Stato settentrionale del Borno. Appena un mese fa, l’esercito di Abuja aveva dichiarato ufficialmente di non avere più da tempo notizie sulla sorte delle giovani. Il sequestro delle liceali (poi mostrate in un video dei Boko Haram tutte vestite con veli che lasciavano scoperto solo il volto) ha avuto grande eco internazionale, ricorda l’Ansa, con la campagna che ne chiedeva la liberazione, cui aderì anche Michelle Obama, sotto l’hashtag #BringBackOurGirls.

E passiamo all’India con la storia di Pradnya Mandhare, 20 anni. A fine marzo si trovava alla stazione di Vile Parle a Mumbai quando un uomo, visibilmente ubriaco, le si è avvicinato e ha cominciato a molestarla e palpeggiarla. “Quando ho provato a evitarlo mi ha afferrata”, racconta Pradnya ad un giornale locale. “ Sono rimasta sotto schock per un paio di secondi, poi ho cominciato a colpirlo con la borsa. Cercava di colpirmi a sua volta ma sono riuscita a sopraffarlo perchè puzzava di alcol e ho capito che era completamente ubriaco”. Pradnya l’ha poi afferrato per i capelli e trascinato dalla polizia ferroviaria sotto lo sguardo di dozzine di persone rimaste ad assistere senza muovere un dito. Pradnya ha anche raccontato che la maggior parte delle donne ha paura di rivolgersi alla polizia: l’iter per segnalare questi casi è complesso e soprattutto imbarazzante per le donne. In India, secondo alcuni rapporti, in media ogni giorno vengono stuprate 92 donne.

E per finire andiamo in Cina. Racconta il Guardian che le indagini sulle cinque femministe detenute da prima dell’8 marzo, Giornata Internazionale delle Donne, si stanno – secondo i loro avvocati – ampliando e concentrando sulle loro campagne contro la violenza di genere e per chiedere più bagni pubblici dedicati alle donne. Li Tingting, 25 anni, Wei Tingting, 26, Wang Man, 32, Zheng Churan, 25, e Wu Rongrong, 30, sono detenute con l’accusa di aver creato disordini, e da alloranon si alcuna notizia di loro. È attesa in questi giorni la decisione da parte dei pubblici ministeri in merito ad un eventuale arresto formale delle cinque donne o al loro rilascio.

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