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Radio Bullets, #donnenelmondo del 22 settembre 2015

dharavi

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La politica del figlio unico in Cina responsabile di più violenza contro le donne di qualsiasi altra politica ufficiale sulla faccia della Terra. Lo afferma l’attivista Reggie Littlejohn, presidente di Women’s Rights Without Frontiers. Le donne gasono costrette ad abortire e questi aborti sono spesso effettuati da persone che non sono dei veri medici. La politica del figlio unico, insieme alla preferenza culturale per i figli maschi, porta all’aborto dei feti femminili o all’abbandono delle bambine con tassi molto più alti rispetto ai maschi, provocando un grave squilibrio tra i sessi nella demografia del paese.”Non ha importanza se il governo cinese permette alla donna di avere un bambino o due bambini. Ciò che conta è che stanno dicendo alla gente quanti bambini possono avere, e che stanno applicando tale limite attraverso l’aborto forzato “, spiega l’attivista Littlejohn.

Nella Baraccopoli di Dharavi a Mumbai, in India, un’organizzazione non governativa sta aiutando gli abitanti degli slum nella lotta alla violenza contro le donne. La baraccopoli, si legge su firstpost.com, può essere schiacciante agli occhi di un visitatore: piena di odori, rumori e sguardi curiosi. Nessuno sa veramente quante persone vivano qui – forse 300.000, forse un milione. I residenti sono per lo più poveri migranti provenienti da diverse parti del paese, tutti alla ricerca di una vita e di un futuro migliore per i loro figli. Ma l’esistenza qui è stressante e talvolta violenta, soprattutto per le donne. La violenza domestica è dilagante, e dilagano gli assalti fuori per le strade di Dharavi. L’Ong Sneha sta cercando di cambiare la situazione insieme a chi vive qui. Un’app chiamata Eyewatch – ne abbiamo parlato in una delle prime puntate di questa rubrica su Radio Bullets – sta aiutando la comunità a documentare i casi di violenza e rende più facile l’aiuto alle vittime di abusi domestici. Ma Sneha, si legge ancora, non sta avendo successo grande alla tecnologia quanto a persone reali, uomini e donne che entrano in azione ogni volta che incontrano episodi di violenza. Uomini come il ventenne Munna Shaikh, che lavora in un piccolo negozio di abbigliamento con altri uomini. Quando ha visto quattro o cinque uomini molestare una donna per strada è intervenuto e ha iniziato a chiamare aiuto. «Sono scappati via”, dice Kamble. “Ho visto una donna in difficoltà, e ho sentito che dovevo darle una mano. Mia moglie è molto orgogliosa di me”, prosegue Kamble. “[Se] Sono in grado di cambiare il pensiero di un uomo sulle donne in favore di queste ultime, che significa che sono riuscito, perché quell’uomo a sua volta cambierà la mentalità di 10 uomini nei confronti di quella donna. Qualunque cosa stiate facendo, mi dice mia moglie, è davvero un ottimo lavoro, e questa nostra società ha tanto bisogno di un cambio di mentalità degli uomini verso le donne”.

A proposito di tecnologia, le donne in Cambogia stanno usando l’ossessione dei giovani con la tecnologia per cercare di modificare i comportamenti in una società in cui molti pensano che la violenza domestica sia normale. Lo riporta il Guardian con le parole di Dany Sun, attivista per i diritti delle donne: ma il progresso tecnologico, dice Sun, non ha portato con sè progressi sulla parità di genere. Il concetto della donna sottomessa ed inferiore all’uomo continua ad essere come sottomesse e inferiori agli uomini, continua ad essere alla base delle statistiche strazianti del paese sulla violenza contro le donne. “Fin dalla nascita siamo meno valorizzate degli uomini”, racconta al Guardian Sun, che ha 23 anni. “Siamo anche ancora tenute a seguire norme culturali, come quelle incluse nell’obsoleto Chbap Srey [il codice di condotta delle donne], che rafforzano il dominio maschile e stabiliscono che le donne devono essere tranquille e sottomesso. Allo stesso tempo, molte persone non si rendono conto che quello che stanno facendo è sbagliato, perché sono ignoranti, e spesso gli uomini e le donne pensano che la violenza domestica sia normale”. La Cambogia ha un alto tasso di stupri di gruppo, con molti giovani nelle aree urbane che lo considerano un’attività ricreativa. Sun è una delle tre donne che sono state sostenute dalla Fondazione Asia per lavorare sulla crescente sete di tecnologia mobile in Cambogia e usarla per contrastare la violenza contro le donne. Sun ha progettato Krousar Koumrou, un’app educativa per prevenire la violenza domestica. In Khmer, Krousar Koumrou significa modello familiare. Secondo uno studio del 2013 delle Nazioni Unite, il 25% delle donne in Cambogia ha dichiarato di aver subito violenza da parte del partner almeno una volta – violenza fisica, sessuale o psicologica. Lo stesso studio ha rilevato che tra gli uomini di età compresa tra i 18 e i 49 anni, per ogni cinque uomini intervistati uno di loro aveva violentata una donna almeno una volta, sia all’interno sia all’esterno di una relazione. Dopo la Papua Nuova Guinea, la Cambogia ha uno dei più alti tassi di stupro di gruppo nella regione. Lo studio ha trovato che circa 1.800 intervistati di sesso maschile, il 5,2%, ha confessato di aver partecipato a uno stupro di gruppo, conosciuto localmente come Bauk.

E passiamo negli Stati Uniti. Molti, scrive Allison Maloney sul NYT, credono che difendere il diritto di portare armi sia un segno distintivo della cultura “americana”. Ma un recente report evidenzia una scomoda verità: che le donne americane vengano uccise con un’arma da fuoco è un marchio di garanzia, come la difesa del diritto a possedere una pistola. Le probabilità di una donna americana di sperimentare violenza fisica di qualche forma per mano del suo partner maschile è più di una su tre, e quando una pistola è presente in una situazione di violenza domestica, aumenta il rischio di omicidio del 500 per cento. Più di tutte le altre armi combinate, le pistole sono state lo strumento prediletto per uccidere la partner negli ultimi 25 anni. Negli Stati Uniti, le donne sono 11 volte più a rischio di essere uccise da una pistola rispetto alle donne di altri paesi ad alto reddito. Il legame tra i tassi di violenza domestica e il numero di donne uccise da armi da fuoco non può essere una sorpresa, ma i dati – si legge ancora sul NYT – sono inqueietanti. Una relazione annuale del Violence Policy Center (VPC) mostra che per le 1.615 donne assassinate da uomini nel 2013 episodi vittima-aggressore, l’arma più comunemente utilizzata è una pistola. Sempre secondo il rapporto, quando gli Uomini uccidono le Donne, il 94 per cento di queste donne sono state uccise da qualcuno che conoscevano, il 62% intimamente. Secondo una ricerca di Everytown, in 35 stati la legge statale consente ai condannati per reati minori di violenza domestica (o soggetti a ordinanze restrittive) di acquistare e usare le armi, anche se la legge federale dice il contrario. Nel frattempo, la definizione federale di “violenza domestica” lascia alcune donne, come sorelle e fidanzate, non protette dai loro aggressori consentendo a questi ultimi di mantenere e comprare armi, anche dopo una condanna.

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Radio Bullets, #donnenelmondo del 9 settembre 2015

Hillary Rodham Clinton Signs Copies Of Her Book 'Hard Choices' In New York

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In Sierra Leone la ministra degli enti locali e dello sviluppo rurale, Finda Diana Konomanyi ha aderito ad un movimento internazionale per i diritti umani – cui partecipano molte donne del suo stesso Paese, per esprimere costernazione e preoccupazione per l’ondata di crimini contro le donne, in particolare le ragazze adolescenti in varie parti del Paese e ha invitato i capi e le altre autorità a contribuire ad affrontare la situazione. A metà agosto molte donne sono scese in piazza per una marcia pacifica in seguito alla morte di una ragazza in spiaggia ad Aberdeen, vittima, sembra, di uno stupro di gruppo. Morte che è solo l’ultima di una serie, di giovani vittime di stupro e brutali femminicidi.

A giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha fatto la storia stabilendo che le coppie gay e lesbiche devono essere autorizzate a sposarsi. Da quel momento, scrive Parker Molloy su Upworthy, sposarsi è, in teoria, semplice: basta recarsi davanti ad un ufficiale del registro della contea, compilare un po’ di scartoffie e ritirare la propria licenza. In teoria. La scorsa settimana infatti un segretario di Contea del Kentucky ha negato licenze di matrimonio a delle coppie perché contro le sue convinzioni religiose personali. Per dimostrare che però non va sempre così, Parker Molloy raccnta su Upworthy la storia di un’eroina non celebrata della storia LGBT: Clela Rorex, ex impiegata della segreteria della Contea di Bulder. Nel 1975, Rorex era in servizio presso la contea di Boulder quando due uomini si sono presentati per chiedere una licenza di matrimonio. Rorex aveva iniziato il suo lavoro da appena tre mesi, ma avrebbe emesso una sentenza che sarebbe rimasta nella storia, si legge ancora su Upworthy. Lo ha spiegato lei stessa a StoryCorps. “Era la prima volta che incontravo persone apertamente gay. “Non so se posso farlo”, gli ho spiegato. Poi sono andata dal procuratore distrettuale, che mi ha detto che il codice del matrimonio del Colorado non specifica che l’unione sia tra un uomo e una donna. E così l’ho fatto”. Epperò. Da allora la Rorex ha ricevuto lettere minacciose, i giornali hanno scritto parole dure sul suo conto, la sua famiglia è stata molestata. “Non avrei mai immaginato questo livello di odio”, racconta. “Oltre alle minacce di morte intere congregazioni ecclesiastiche mi hanno scritto che far sposare coppie dello stesso sesso significava portare Sodoma e Gomorra nella zona”.

A proposito di Stati Uniti, sono passati 20 anni dal discorso di Hillary Clinton alla quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, il 5 settembre 1995. Su Bustle.com si trovano alcune citazioni di quell’intervento, da leggere per riflettere su quanto sia – o non sia – cambiato in 20 anni. “Dobbiamo capire che non c’è una formula secondo la quale le donne dovrebbero condurre la propria vita. Ecco perchè dobbiamo rispettare le scelte che ogni singola donna fa per se stessa e per la sua famiglia. Ogni donna merita la possibilità di realizzare il potenziale che Dio le ha dato. Ma dobbiamo riconoscere che le donne non guadagneranno mai piena dignità finché i loro diritti umani non saranno rispettati e protetti”. E ancora: “È una violazione dei diritti umani quando ai bambini viene negato il cibo, o quando vengono annegati o soffocati, o quando le loro spine dorsali vengono rotte, solo perché quei bambini sono nati femmine. È una violazione dei diritti umani quando donne e ragazze sono vendute nella schiavitù della prostituzione per avidità umana – e il genere di ragioni che viene utilizzato per giustificare questa pratica non dovrebbe più essere tollerato”. E ancora: “È una violazione dei diritti umani quando le donne vengono cosparse di benzina, date alle fiamme, e bruciate a morte perché la loro dote matrimonio considerata troppo esigua. È una violazione dei diritti umani quando singole donne vengono stuprate nelle loro comunità e, quando migliaia di donne sono sottoposte a stupro come tattica o premio di guerra”.

Islamofobia in Gran Bretagna: i crimini che hanno per matrice l’odio islamico sono saliti del 70% a Londra. E la maggior parte delle vittime sono di sesso femminile. Ne parla Radhika Sanghani sul Telegraph. “Sono stata sputata in in strada mentre indossavo il mio velo”, le racconta Sara Khan. “Sono stata chiamata ‘la moglie di Osama Bin Laden’. Con gente che mi si è avvicinata e dicendo parolacce e tentando di accecarmi persino mentre spingevo la carrozzina con mia figlia di sei mesi dentro”. Non si tratta di episodi isolati, spiega Radhika. La Metropolitan Police ha rilasciato in questi giorni nuovi report da cui emerge che i crimini motivati dall’odio contro i musulmani in Gran Bretagna sono aumentati del 70 per cento rispetto all’anno scorso. Tell Mama, un’organizzazione che monitora gli attacchi islamofobici, dice che il 60 per cento di queste aggressioni sono rivolte alle donne, e avviene per strada. Le donne diventano, dice Fiyaz Mughal, fondatore di Tell Mama, evidenti obiettivi per i razzisti che dirigono i loro attacchi a elementi visibili, quindi l’hijab – il velo – e il niqab, il velo integrale.

E sempre nel Regno Unito il governo ha ordinato un’inchiesta per ridurre la violenza contro le donne nelle università. Ai dirigenti universitari è stato ordinato di condurre una task force per esaminare il problema ed elaborare un codice di condotta “per portare avanti il ​​cambiamento culturale”. Le associazioni studentesche hanno accolto con favore la decisione, sottolineando come sessismo e molestie siano a livello pandemico.

Le donne nel movimento per i diritti in Kenya hanno chiesto al presidente Uhuru Kenyatta – in questi giorni in Italia per una visita ufficiale – di ritirare la rimozione del Vice Ispettore Generale Grace Kaindi, sostenendo una cospirazione continua contro le donne che ricoprono posizioni di rilievo nel servizio pubblico. Al di là della vicenda interna alla Polizia in questo caso, “Il movimento delle donne in Kenya è disturbato dalla tendenza costante di perseguitare donne leader nei pubblici uffici”, spiega Teresa Omondi, vice direttore esecutivo di FIDA. Il movimento, si legge su Standard Digital News, promette di arrivare in tribunale se il presidente non dovesse rivedere la sua decisione.

La stessa FIDA, Federazione internazionale delle donne avvocato, esprime – questa volta in Nigeria – preoccupazione per l’aumento della violenza contro le donne, in particolare di stupri, violenze sessuali, circoncisioni femminili e mutilazioni genitali. Hauwa Shekarau, la Presidente Nazionale della federazione, ha fatto appello ai media per condurre un’azione all’avanguardia nella lotta contro tutte le pratiche dannose e discriminatorie per donne, bambini e non solo.

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Radio Bullets, #donnenelmondo del 29 luglio 2015

New York Magazine

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Partiamo con la copertina del New York Magazine. Ci sono le foto in bianco e nero di 35 donne che accusano il celebre attore Bill Cosby di averle violentate. Violenze partite già negli anni 60. E c’è una sedia vuota, la sedia della prossima vittima. Il settimanale ha raccolto le loro storie, intervistando e fotografando ognuna di loro. Il copione, come riportato anche dal Washington Post, sarebbe stato più o meno sempre lo stesso: una giovane donna, spesso un’aspirante attrice, violentata da un uomo che si ritiene un mentore, magari dopo essere stata drogata e stordita. C’è Barbara Bowman, violentata da Bill Cosby secondo la sua testimonianza quando aveva solo 17 anni, o Therese Serignese che di anni ne aveva 19 all’epoca della violenza. C’è Andrea Costand, che meno di dieci anni fa ha raccontato che Cosby l’avrebbe drogata e violentata nel 2004 nella sua casa in Pennsylvania. C’è Tamara Green, avvocata, vive in California e racconta la stessa storia: lei aspirante attrice, lui che la aggredisce dopo averla drogata. Analoga la testimonianza di Janice Dickinson, ex modella.

Ma Bill Cosby non è l’unico vip a trovarsi nei guai in questi tempi. Sono infatti tornate alla ribalta le accuse di violenza sessuale sull’ex moglie Ivana al magnate e businessman Donald Trump. Secondo una biografia del 1993 Trump violentò la moglie dopo ad un litigio sui trattamenti contro la perdita di capelli. Il libro, Lost Tycoon: Le molte vite di Donald J. Trump, descrive una “violenta aggressione” di una “terrorizzata” Ivana, che a quanto pare avrebbe poi detto ai suoi amici più intimi: “Mi ha violentata.” Lo riporta il Telegraph. Trump ha già smentito, scrive Radhika Sanghani, ma la situazione è complessa: se è vero, Ivana è stato vittima di un terribile attacco, se non è vero, Trump – un candidato presidenziale – è vittima di calunnia. Certo lo stupro della moglie è un reato da tempo: fin dal 1984 nello stato di New York – quindi cinque anni prima del presunto incidente – e dal 1993 in tutti gli USA. Tanto che l’avvocato di Donald Trump ha dovuto scusarsi pubblicamente per le sue affermazioni nel corso di un’intervista e per la frase: “Non è possibile stuprare la propria moglie”

Passiamo in Polinesia. “Porre fine alla violenza è un problema che riguarda tutte le nostre comunità e dei nostri paesi”, ha detto l’Alto Commissario australiano Brett Aldam in occasione del lancio di una nuova risorsa di informazioni per le donne a Nuku’alofa, capitale del regno di Tonga. Il nuovo kit di strumenti, dal titolo “Come realizzare progetti per porre fine alla violenza contro donne e ragazze”, è il primo del suo genere nel Pacifico. È stato sviluppato da UN Women attraverso il Pacific Regional Ending Violence against Women Facility Fund, con il finanziamento del governo australiano.
Una serie di studi condotti in tutto il Pacifico dimostra che due donne su tre hanno vissuto un qualche tipo di violenza nel corso della loro vita, per lo più da partner o mariti.

Andiamo infine in Nepal, dove a tre mesi dal terremoto in Nepal che il 25 aprile scorso ha provocato oltre 8.890 morti e più di 22 mila feriti, resta alta l’emergenza umanitaria soprattutto nelle zone interne del Paese e l’Oxfam, il network internazionale di organizzazioni impegnate nella lotta alla povertà e e all’ingiustizia, denuncia il rischio di violenze sulle donne nei rifugi temporanei. Ne parla Elvira Ragosta su Radio Vaticana. Secondo l’Oxfam, nel distretto di Dhading – nella zona centrale del Nepal – le donne vivono con la paura di subire abusi fisici e sessuali per la mancanza di sicurezza e di privacy dovuta alla promiscuità dei campi. L’indagine di Oxfam ha evidenziato come i bagni comuni e le aree prive di luce elettrica siano considerate i posti più insicuri. Inoltre, nei distretti più colpiti, molte famiglie sono ancora costrette a vivere all’aperto sotto teloni o in strutture fatte di lamiera. E sale anche il rischio per le epidemie, soprattutto per i bambini, perché in alcune zone l’accesso all’acqua potabile non è garantito.
E anche per oggi è tutto. Appuntamento alla prossima settimana con #donnenelmondo su Radio Bullets. Seguiteci sulla nostra pagina Facebook e su Twitter con il nostro account @RadioBullets

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