Radio Bullets, #donnenelmondo del 25 marzo 2016

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Terrorismo e genere: mentre a Bruxelles resta alta la tensione, un’analisi sul ruolo e il destino delle donne.

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Mentre a Bruxelles, dopo gli attentati di martedì scorso, sono in corso raid, arresti e perquisizioni, questa settimana parliamo di donne e terrorismo, con alcuni interventi di Catherine Powell, Fellow for Women and Foreign Policydel Council on Foreign Relations. “Tradizionalmente,le donne nel tempo sono state viste come vittime del terrorismo. La relazione tra gender e terrorismo è in realtà molto sfaccettata”, scrive Catherine Powell. “In alcuni casi le donne vengono reclutate e radicalizzate da estremisti violenti, sostenendo le attività terroristiche con una serie di azioni. Dall’altra parte peròmolte donne giocano un ruolo vitale invece nel prevenire la radicalizzazione e l’estremismo. In particolare, in alcuni casi, le donne (ad esempio le donne Yazidi sfuggite al rapimento dei militanti del sedicente Stato Islamico) hanno la capacità di fornire intelligenza critica e conoscenza sul funzionamento interno delle organizzazioni terroristiche, potendo così aiutare i governi di tutto il mondo a combatterle”.

“Le donne”, si legge sul Council on Foreign Relations, “sono spesso vittime e sopravvissute di alcune delle peggiori atrocità perpetrate dai terroristi nei conflitti. Esattamente come accade in forme più “convenzionali” di guerra e conflitto, dove lo stupro e altre forme di violenza sessuale restano strumenti di guerra, gli estremisti violenti usano la violenza sessuale per controllare le donne ed esercitare il potere sulle comunità. I gruppi estremisti, Stato Islamico incluso, usano la violenza contro le donne, compresa la violenza sessuale, come parte della loro politica economica e come strategia del terrore. Si stima che l’ISIS abbia rapito nel 2014 almeno 3mila donne Yazidi. La maggior parte è ancora oggi prigioniera. Il gruppo sottopone queste donne a stupri organizzati, violenza sessuale, matrimoni forzati, conversioni forzate e schiavitù sessuale. Oltre a questi abusi e a queste severe restrizioni, lo Stato Islamico impone anche altri vincoli forzati a donne e ragazze: limita loro l’accesso all’istruzione e al lavoro, come sostenuto nel “Manifesto sulle donne”. Coloro che non seguono le regole o mostrano infedeltà incappano in punizioni brutali: vengono frustrati, lapidati, decapitati con vere e proprie esecuzioni pubbliche.

Ma le donne, scrive ancora Catherine Powell, “non sono solo vittime e sopravvissute: sono anche a loro volta autrici di atti terroristici e componenti attive dei gruppi estremisti. La Brigata al-Khansaa, ad esempio, è la polizia morale dell’Isis tutta al femminile, fondata a Raqqa subito dopo la conquista della città da parte del sedicente Stato Islamico. La brigata ha le proprie strutture al fine di evitare commistioni tra uomini e donne. “La Jihad non è un dovere solo degli uomini. Anche le donne devono fare la loro parte”. L’istituzione di garanti femminili per la moralità femminile ha un senso logico e logistico, se si porta il divieto di rapporti tra i sessi alle sue estreme conseguenze: pensate alle perquisizioni. E la Brigata al-Khansaa rappresenta solo uno dei gruppi femminili a sostegno degli estremisti, una piccolissima percentuale di donne nello Stato Islamico. È composto sia da donne locali Siriane – ne ha parlato il New York Times – sia da donne straniere”.

Resta il fatto che la stragrande maggioranza delle donne nello Stato Islamico in genere viene trattata come un bene mobile, come una cosa: la funzione primaria è quella di sposare i combattenti stranieri e far nascere una nuova generazione di jihadisti. “All’interno di altre organizzazioni estremiste come Boko Haram (ora tecnicamente parte del Wilayah Garb Afriqiyah, affiliati quindi allo Stato Islamico), le donne hanno portato avanti attacchi terroristici, in genere attacchi bomba kamikaze, sebbene non sia del tutto chiaro se lo facciano volontariamente o perché forzate. Mentre apparentemente lo Stato Islamico non permette alle donne di combattere in prima linea (con la possibile eccezione di coloro che vengono reclutate in Europa), alcune donne nei fatti supportano il gruppo sposando i combattenti e danno vita a nuove generazioni.

Ma le donne possono anche essere parte attiva della soluzione all’estremismo, scrive ancora la Powell. “L’empowering delle donne e della loro leadership in zone di conflitto e in altre comunità ha il potenziale di essere una strategia effettiva per combattere l’estremismo violento. Gruppi di donne come il Sisters Against Violent Extremism o il Women Without Walls Initiative, sono nella posizione di contrastare la radicalizzazione e l’estremismo all’interno delle loro comunità. Come le organizzazioni locali, il loro sguardo è sui rischi di radicalizzazione dei membri della comunità e hanno l’abilità di proporre una contro-narrazione all’estremismo nelle case, nelle scuole, e nelle comunità tutte. Spesso le donne coinvolte in queste realtà sono madri e hanno il polso sui punti deboli dei più giovani alla radicalizzazione. E soprattutto l’empowerment delle donne è come al solito correlato alla crescita economica e all’aumento della forza delle community, e questo aiuta ad affrontare molti aspetti come la povertà e la disoccupazione, spesso citate come cause profonde dei conflitti, della violenza e dell’estremismo”.

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